Un nastro trasportatore in una miniera

Un nastro trasportatore in una miniera, la transizione energetica e digitale hanno messo pressione su risorse come minerali, terre rare e metalli

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Risorse critiche, energia e cleantech: è gara tra potenze

Dalle nuove rotte per le risorse fossili alle innovative reti dell'idrogeno, dai metalli alle terre rare: le crisi internazionali negli ultimi anni hanno messo in luce il ruolo critico dell'accesso alle risorse nella mappa geopolitica globale per la competizione tecnologica internazionale e l’industria del futuro. Il punto a un anno dall'inizio della guerra fra Russia e Ucraina

Nel corso degli ultimi venticinque anni le economie occidentali hanno vissuto quello che potrebbe essere definito un “grande torpore” nella valutazione dei rischi per la propria sicurezza economica e degli approvvigionamenti. Convinti che solo il prezzo e il mercato globalizzato dovessero essere le bussole per indirizzare le proprie scelte strategiche, i principali Paesi occidentali, e l’Europa in particolare, hanno sottovalutato l’elemento della sicurezza in favore di quello della massimizzazione dei profitti e della riduzione dei costi. 

Lo scoppio della pandemia è stato il primo scossone, che ha reso evidente l’importanza di avere filiere produttive resilienti per prodotti critici quali i materiali sanitari e la farmaceutica. La Commissione europea, partendo da tali preoccupazioni, ha recentemente identificato circa 137 prodotti che sono fortemente dipendenti dalle importazioni, in particolare dalla Cina. Nel medio periodo potrebbe quindi emergere, anche in conseguenza della guerra in Ucraina, una nuova globalizzazione per blocchi, con fenomeni di re-shoring, near shoring e friend shoring. 

La recente crisi dei semiconduttori - componenti fondamentali per il funzionamento di apparecchi quali computer, televisori, smartphone, auto e frigoriferi - è stato il secondo elemento di allarme per le catene di approvvigionamento. La ripresa economica post pandemia, infatti, ha determinato una forte domanda di questi componenti a partire dal 2021; domanda che non è stata soddisfatta da una sufficiente offerta, a causa di colli di bottiglia e problemi di produzione in aree cruciali per la fabbricazione dei chips, come Taiwan. Per far fronte a questa fragilità strutturale, la Commissione europea, a febbraio 2022, ha presentato lEU Chips Act, un piano da 43 miliardi di euro che intende portare l’Europa ad avere, entro il 2030, una quota di mercato pari al 20% dei chips prodotti nel mondo, rispetto al 10% attuale. Gli USA hanno risposto attraverso lo US Science and Chips Actcon una dotazione di circa 50 miliardi di dollari per aumentare la produzione interna in tutta la filiera dei chips. Per accedere ai sussidi federali, inoltre, le imprese americane produttrici di semiconduttori si dovranno impegnare a non espandere la propria capacità produttiva in Cina per i prossimi 10 anni.

Nel campo dell’energia e delle materie prime si è andata aggravando nel corso degli anni una dipendenza strategica strutturale, in particolar modo dalla Russia, che ha fatto sì che durante il 2021 l’Europa importasse il 45% del proprio gas e il 30% del proprio petrolio da Mosca. Lo scoppio della guerra ha rappresentato il grande risveglio e ritorno alla realtà, con la parola d’ordine che è divenuta diversificazione e sicurezza. All’inizio del 2022, con l’avvio del conflitto in Ucraina, la geopolitica ha prevalso sull’economia: interdipendenze economiche che sembravano inscalfibili sono state spezzate in meno di un anno. L’Europa ha puntato su nuovi fornitori e nuove fonti di approvvigionamento per il gas, con un ruolo sempre maggiore di Norvegia, Algeria, e del gas naturale liquefatto GNL (quest’ultimo arrivato a coprire sino al 40% dell’import di gas a inizio 2023). In particolare, Roma ha aumentato i propri flussi dall’Algeria (ora primo fornitore), dall’Azerbaigian, ma anche da Paesi quali Egitto, Qatar, Mozambico e Stati Uniti, sotto forma di GNL. 

In questo quadro generale, in ogni caso, non si è arrestata la corsa alle rinnovabili, con il solare che ha registrato nel mondo un aumento di capacità installata del +47% nel 2022 rispetto al 2021 e un +33% per l’eolico. Si è affacciata inoltre la grande questione delle reti: la crucialità dell’idrogeno verde come vettore della transizione (in particolare per i settori di difficile elettrificazione) pone la necessità di adattare le esistenti reti del gas e costruire nuove reti H2 ready. In questa direzione va ad esempio il progetto H2Med lanciato da Spagna, Portogallo e Francia con l’ingresso successivo della Germania, che prevede di far transitare l’idrogeno prodotto nella penisola iberica e in Francia (attraverso il nucleare) verso l’Europa centrale: un progetto che da solo, si stima, sarà in grado di fornire il 20% della domanda europea di idrogeno. 

E proprio questo insieme di passi, coerenti con gli obiettivi previsti dal piano RePower EU per favorire la transizione energetica e rendersi indipendenti dalle forniture di Mosca, apre un secondo capitolo: la competizione geopolitica ed economica per la leadership nel settore del cleantech, al fine di essere i protagonisti dell’industria del futuro e deciderne gli standard di riferimento. Un ambito in cui la Cina primeggia ancora in modo indiscusso: Pechino, infatti, produce più del 75% dei pannelli fotovoltaici a livello internazionale, il 60% dei veicoli elettrici nel mondo, il 90% dei bus elettrici e il 95% dei camion elettrici, nonché il 75% delle batterie elettriche. Inoltre, il 50% della capacità eolica installata nel mondo nel 2022 è stata in Cina. Un protagonismo assoluto facilitato anche dalla ricchezza cinese nei metalli e terre rare fondamentali nell’industria della transizione energetica: Pechino produce circa il 58% delle terre rare nel mondo e ne detiene il 36% delle riserve. 

In questa partita, gli Stati Uniti hanno deciso di dare un’accelerazione ai piani di sostegno alla propria industria dell’alta tecnologia e della transizione energetica, attraverso lo US Inflation Reduction Act (IRA) dell’agosto 2022. Un piano da 390 miliardi di dollari, che va ad aggiungersi alla Bipartisan Infrastructure Bill del 2021, e include importanti sussidi per lo sviluppo delle energie rinnovabili, dei veicoli elettrici, delle infrastrutture collegate, nonché per i processi di decarbonizzazione industriale. 

La decisione americana ha innescato una corsa ai sussidi e alla competizione tecnologica anche tra alleati, con l’UE che si appresta a rispondere con nuove misure, tra cui la proposta della Commissione di un Green Deal Industrial Plan, che includerà semplificazioni a gare d’appalto, un accesso più rapido ai finanziamenti con flessibilità nel concedere aiuti di Stato per le tecnologie verdi, e maggiore flessibilità sull’utilizzo dei fondi del Next Generation EU. Tali misure, in particolare gli aiuti di Stato, rischiano tuttavia di determinare una frammentazione del mercato unico europeo e favorire i Paesi con maggiore spazio di manovra fiscale, come Germania e Francia. Ecco perché molti altri Paesi europei, Italia inclusa, spingono invece per la creazione di un Fondo per la sovranità europea o l’utilizzo di eurobond per finanziamenti congiunti dell’UE in industrie verdi e dell’high tech. Soluzione che trova naturalmente Berlino e i Paesi frugali contrari. 

La resilienza e sicurezza delle catene del valore europee non prescindono inoltre da infrastrutture connesse con il mercato europeo. Ecco perché il Global Gateway, piano di investimenti varato dall’UE a fine 2021 che prevede fino a 300 miliardi di investimenti entro il 2027 in Paesi in via di sviluppo partner dell’UE (con un importante focus sull’Africa), sarà cruciale per contrastare gli investimenti cinesi e rendere le supply chains europee più resilienti, anche grazie alla prevista adozione a metà marzo dello European Critical Raw Materials Act. E sui materiali critici potrà aiutare anche la recente scoperta di un grande giacimento di ossidi di terre rare in Svezia, che coprirà una significativa porzione della domanda europea. 

Si apre quindi una nuova fase della globalizzazione, una sua riconfigurazione, con commerci di prodotti critici che avverranno sempre più su filiere corte, diversificate, e possibilmente tra like-minded countries. Ma ciò non significa una crisi strutturale per il commercio internazionale. Esso gode ancora di buona salute, con gli scambi del 2022 superiori del 25% rispetto a quelli del 2019 (anche se con una frenata prevista nel 2023). Autonomia strategica, obiettivo europeo ma non solo, non deve significare necessariamente un ritorno pericoloso al protezionismo e a fenomeni di chiusura autarchica. Spetta quindi ora ai governi e ai sistemi industriali dei diversi Paesi individuare le priorità strategiche per la propria sicurezza economica, ben consapevoli che una gara al rialzo di sussidi nuoce allo sviluppo di un mercato efficiente ed è difficilmente sostenibile nel lungo periodo per le finanze pubbliche.
 

di Alessandro Gili, ricercatore associato al centro Business Scenarios (sostenuto da Intesa Sanpaolo) e al centro sulle Infrastrutture


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