«Il viaggio è la grande esperienza per eccellenza, ci permette di giocare con la nostra identità e di lasciare che l'imprevisto trasformi il viaggiatore. Dante Alighieri è il primo turista della storia: la Divina Commedia è un'esperienza di viaggio che alla fine lo trasforma». In un mondo che appare saturo di turismo, urge dare un senso alla pratica del viaggio, nella sua trasformazione sociale, digitale e ambientale. Se n'è accorto Rudi Capra, ricercatore in Filosofia all'università di Wuhan in Cina, autore di “Filosofia del Viaggio” (Mimesis Edizioni): «Sul viaggio si è scritto tanto, tantissimo, soprattutto in letteratura, ma si è riflettuto poco, o comunque non abbastanza, soprattutto in filosofia», spiega.
Capra, a cosa serve oggi una "filosofia di viaggio"?
«A porre le domande giuste su una pratica antichissima che riguarda tutte le culture. Il genere umano è nato da una grandissima migrazione dall'Africa e la vita stessa dei popoli, delle tribù e delle civiltà che emigrano per trovare migliori condizioni ci aiuta a porre le domande giuste su questa pratica».
Lei parla di desiderio e identità: in quale rapporto stanno con il viaggio?
«Il viaggio, come tante attività umane, è intimamente legato al desiderio di essere altro e altrove, di diventare altro. Apre le porte a opportunità di esistenza che ancora non abbiamo considerato, allontanandoci dall'identità costruita nel quotidiano. Ci permette di rinegoziare i limiti di tale identità, attraverso uno spostamento spaziale che è anche intellettuale e immaginativo. Riflette perciò un desiderio, che è l'istinto che muove in profondità ogni creatura. E Il viaggio ci cambia anche dove non lo percepiamo: noi cambiamo il mondo ma il mondo, attraversandoci, cambia noi».
Vale per qualsiasi tipo di viaggio? Dalle migrazioni al turismo?
«Certo. Pensiamo alla flânerie, la pratica di attraversare a piedi luoghi già noti e abituali in città da un punto A a un punto casuale X con una modalità che disorienta, cambiando prospettiva nel modo di viaggiare e di stare nel mondo. Lo stesso Xavier de Maistre, ristretto ai domiciliari nel 1794, aveva potuto raccontare il 'Viaggio intorno alla mia camera' cambiando la propria attitudine e allenando il suo spirito di osservazione».
Ma nell'epoca dell'”identità gassosa”, dell'AI e dell'algoritmo che orienta i nostri desideri, come si colloca il viaggio?
«Hartmut Rosa parla di 'accelerazione' per la nostra epoca. Siamo soggetti a una 'stasi frenetica', un muoversi continuo per non andare da nessuna parte, anche nel tempo libero. Il viaggio, dopo la rivoluzione digitale nel 2000, è diventato un'esperienza sempre più facile e frenetica. Guardiamo come è cresciuto il numero di turisti: nel 1989 erano 400 milioni; nel 2019 erano 1,4 miliardi. Il turismo fattura oltre il 10% del PIL globale ed è la prima industria al mondo con un posto di lavoro ogni 5. Oggi possiamo soddisfare qualsiasi desiderio e dimostrare di aver traversato il deserto Wadi Rum in Giordania o di aver scalato l'Everest, diventa un'indicazione di stato simbolico, un bene di consumo soggetto alla frenesia del desiderio».
Allora, come scegliere il proprio viaggio oggi?
«Più che scegliere un 'viaggio' direi 'un'esperienza-di-viaggio'. In tedesco il termine 'esperienza' si traduce ”erfahrung” che deriva da verbo “fahren”, viaggiare. 'L'esperienza' è quindi 'il mio viaggio', 'quello che ho attraversato'. Il rischio inerente al turismo selvaggio è arrivare alla fine del viaggio con grado di esperienza pari a quando partiamo, un erfahrung privo del fahren, un girare come una trottola. Quindi, al di là di quello che scegliamo, dalle piramidi Inca alla propria camera da letto, l'importante è farlo sempre con un'attitudine critica e di meraviglia».
E così torniamo al rapporto fra desiderio e identità?
«Bisogna essere connessi con il proprio desiderio, che spesso ci viene indotto in modo mimetico. Dobbiamo invece capire cosa è importante ed essenziale per noi, attraverso l'introspezione e la contemplazione. Non sempre guardando all'esterno troviamo quello che possiamo avere».
Il digitale ha migliorato o peggiorato il viaggio?
«La tecnologia ha cambiato il modo di stare al mondo negli ultimi 20-30 anni. Siamo sempre più connessi con la virtualità, ovvero con un mondo in potenza, non attuale. La tecnologia non va demonizzata, ma i rischi sono molteplici e bisogna recuperare un equilibrio. Cercare un contatto con la natura, ritrovare quel senso primitivo e fenomenologico di unità con il mondo, come molti hanno provato a fare nel post-Covid».
La rappresentazione del viaggio ha ormai fagocitato l'esperienza?
«Susan Sonntag diceva che fotografare è un modo di fare, produrre e condividere l'esperienza ma è anche una maniera di rifiutare l'esperienza. Nel caso del turismo la limita alla ricerca del fotogenico, convertendola in immagine o in un souvenir. Va fatta attenzione a una modalità di turismo che produce una serie di immagini da indossare come perle di una collana per adornarci di una dimensione simbolica che vorremmo imporre ad altri, più che condividere. Questa attitudine non è sintonizzata sul luogo ma sul non-luogo della virtualità e chiede una conferma di benessere sociale che gratifica ed entra a far parte della nostra identità. Sta anche in questo la deriva narcisistica del media-mondo che ci circonda e in cui viviamo».
Come uscire dalla bolla dell'overtourism?
«Evitandolo, con una responsabilità etica. Scegliere località fuori dai circuiti alla moda fa bene al posto e al viaggiatore. Ma c'è anche la responsabilità da parte degli amministratori, nel garantire che l'esperienza turistica non sia devastante per il luogo che l'accoglie».
Il viaggio è ancora un'esperienza dell'alterità, formativa e riformativa?
«Sì, perché significa giocare con la nostra identità e ne facciamo esperienza sin dagli albori, quando desideriamo qualcosa. Non è necessario essere sempre un viaggiatore alla Indiana Jones. Lo stesso Dante è il primo turista della storia che si affida alle sue guide, Virgilio e Beatrice, in un viaggio trasformativo grazie al suo spirito critico, capacità di osservazione e contemplazione».
Lo slow-tourism è una soluzione?
«Ha dei margini enormi, ma il paradosso è che quando diventa 'resistenza di massa' si trasforma in quello che aveva giurato di distruggere. L'importante è che non diventi l'ennesima moda».
Insomma, con 1,4 miliardi di turisti nel mondo, ognuno può avere una sua “filosofia di viaggio”?
«È auspicabile. Con 7-8 miliardi di persone nel mondo e una crescita costante dei flussi migratori è necessario riflettere sul viaggio nelle sue molteplici sfaccettature”.
Già, le migrazioni...
«Fanno parte della natura umana. 'È un mondo di cose che piangono', dice Enea fuggendo da Troia. Oggi, in un cosmo colpito da crisi ecologiche, disuguaglianze e conflitti i flussi migratori sono sempre più improvvisi e violenti. Il migrante è l'opposto del turista: il primo è costretto a partire, il secondo sceglie di partire. È lo straniero che serve gli indigeni, mentre il turista viene servito. In questa dinamica, tra il soddisfare i propri desideri piuttosto che essere scacciati dalla propria terra, vediamo gli squilibri delle diseguaglianze che attraversano il pianeta».
Foto di Krisjanis Mezulis su Unsplash