Idrogeno green: ecco i maggiori impianti e progetti per produrlo in Europa
L’idrogeno verde promette di decarbonizzare il sistema energetico, ma tra obiettivi UE e reale capacità produttiva c'è la necessità di costruire i nuovi impianti. Vediamo quali sono i più grandi a oggi presenti o in costruzione in Europa
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Fonti fossili, vale ancora la pena? I rischi di un futuro carbon lock-in
Costruire infrastrutture legate a fonti fossili bloccherà la transizione energetica del sistema industriale, oltre le scadenze fissate dall’Ue per la decarbonizzazione. Questo ritardo avrà un impatto sui rischi climatici ed economici, a causa della perdita di competitività del settore manifatturiero e della diffusione di stranded asset in quello energetico
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Una transizione ecologica lenta e contraddittoria come quella italiana non rischia solo di rallentare la mitigazione dei cambiamenti climatici, ma anche di riempire i processi industriali e l'economia di tecnologie obsolete, sottraendo al tempo stesso risorse al passaggio verso energie pulite. È il fenomeno del carbon lock-in: puntare oggi su infrastrutture legate ai combustibili vuol dire impegnarsi in investimenti con un tempo di ritorno di diversi decenni, accettando quindi di trovarsi a un certo punto al bivio tra due cattive opzioni. La prima è continuare a usarle fino a scadenza, non rispettando quindi gli obiettivi climatici di decarbonizzazione. La seconda è abbandonarle, lasciando i bilanci dello stato e delle aziende pieni di stranded asset, risorse incagliate che avranno nel frattempo perso ogni valore e che non permetteranno più di rientrare dagli investimenti iniziali.
Il 20 luglio 2023 il parlamento italiano ha approvato in via definitiva il decreto sui rigassificatori. Lo stesso giorno il ministero per l'Ambiente e la Sicurezza energetica ha inviato alla Commissione europea la nuova bozza del Pniec - il Piano nazionale integrato energia e clima, ancora fortemente legata al mondo della vecchia energia.
In entrambi i casi, le due decisioni proiettano l'utilizzo dei combustibili fossili, e in particolare del gas naturale, ben oltre i termini previsti dai piani europei di riduzione delle emissioni a partire dal 2030, prevedendo una serie di investimenti in nuove infrastrutture e «senza una chiara strategia di uscita dalle fonti fossili, con una visione emergenziale che non considera l'evoluzione di prezzi e domanda», come si legge nell'analisi pubblicata dal think tank indipendente su energia e clima Ecco.
Se dal punto di vista energetico, il rischio è soprattutto climatico e finanziario, da quello della produzione c'è anche quello della perdita di competitività e della de-industrializzazione per alcuni settori chiave, a partire dall'automotive. Rallentare la transizione all'elettrico, o deviarla su tecnologie dal futuro incerto come i biocarburanti, rischia di spingere progressivamente fuori mercato decine di aziende.
È un livello particolarmente importante per un paese che è il secondo manifatturiero d'Europa, con 4 milioni di occupati, 20% del Pil, ma che ha anche visto un invecchiamento e una contrazione negli ultimi anni. Per i settori hard-to-abate, come cemento, vetro, carta, ceramica, acciaio, saranno fondamentali la ricerca e l'innovazione lungo strade come l'idrogeno verde, ma lì dove le tecnologie mature esistono già, come l'automotive, è importante una traduzione rapida a tecnologie sostenibili. In caso di decarbonizzazione rapida, secondo uno studio di MBS Consulting il tasso di occupazione passa dal 57% del 2020 al 68% del 2030, soprattutto per i giovani under 34 e le donne.
Il problema dei rischi del lock-in risulta però particolarmente evidente se guardiamo al ruolo del gas nel sistema energetico. Secondo un vecchio adagio, «il petrolio è un fidanzamento, ma il gas è un matrimonio». È un modo per dire che la complessità delle infrastrutture richieste per usarlo e la lunghezza dei contratti con fornitori stranieri proiettano l'utilizzo di questa fonte nei decenni. Quello che viene deciso nei primi anni '20 ha conseguenze fino agli anni '40. Secondo un rapporto di Carbon Tracker già prima dello scoppio della guerra in Ucraina due terzi dei contratti sul gas avevano una durata superiore ai vent'anni, il conflitto non ha fatto che rendere il prezzo spot più elevato e incoraggiare gli accordi stabili, che però aumentano il rischio di proiettare gli investimenti fossili in un futuro in cui diventeranno stranded asset.
Nel caos energetico scoppiato dopo la guerra in Ucraina, i paesi Ue hanno previsto di aumentare fino al 2026 la capacità di importazione di gas liquefatto del 92%, con la Germania al primo posto e l'Italia al secondo, con la firma di almeno sette contratti a lungo termine che dureranno fino al 2040 e oltre. Le perdite finanziarie rischiano di essere nell'ordine degli 11 miliardi di euro, anche perché - secondo una recente previsione di Ieefa (Institute for Energy Economics and Financial Analysis) - la domanda di gas in Europa già nel 2030 sarà il 40 per cento di quella del 2019. Quindi, ancora una volta, il rischio è di costruire infrastrutture che smetteranno di essere utili ben prima di essersi ripagate.
Secondo un'analisi di Wri - World Resources Institute il tempo di assorbimento di un investimento in infrastrutture può andare dai 14 anni per quelle residenziali agli 80, per un tempo mediano di 27,5 anni, che per il gas arriva fino a 30. Il che vuol dire che una scelta tecnologica fatta oggi sul gas ha una proiezione oltre i termini net zero dell'Unione Europea: globalmente nel prossimo decennio verranno spesi 90mila miliardi di dollari in infrastrutture: «scegliere bene verso che tipo di investimenti orientarsi farà una differenza critica», scrive Wri, non solo da un punto di vista della riduzione delle emissioni di gas serra e quindi l'impatto sulla crisi climatica, ma anche per il rientro di quegli investimenti stessi.
Il simbolo di questa strategia ancora legata al fossile anche nei prossimi decenni, quella nella zona temporale degli stranded asset, è la scelta di dotarsi di nuovi rigassificatori, impostazione confermata anche dal nuovo Pniec del Governo, ma in contraddizione con il piano RePowerEU. Una volta che questa tecnologia è nel sistema, infatti, genera una dipendenza molto difficile da spezzare. All'ultima edizione dell'Italian LGN Summit organizzata a Roma con il patrocinio del Ministero dell'ambiente, l'amministratore delegato di Olt offshore Lng Toscana, controllata di Snam che gestisce il rigassificatore di Livorno, ha detto di prevedere che l'operatività di questa infrastruttura - in questo momento prevista fino al 2033 - possa essere allungata fino di altri dieci o quindici anni, quindi fino al 2048, attraverso un revamping, che ovviamente avrebbe dei costi e sarebbe indice di una scelta politica e strategica.
Le capacità dell’idrogeno per l’industria e i trasporti
Le capacità dell’idrogeno per l’industria e i trasporti
Potrà dare un contributo importante a ridurre le emissioni nell’industria pesante e nei trasporti dove l’elettrificazione è più difficile. L’Hydrogen JRP è un centro di ricerca voluto dal Politecnico di Milano, per una filiera della ricerca tra università e mondo delle imprese
Nel 2050, anno che l’Europa ha votato alla neutralità climatica, l’idrogeno ricoprirà oltre il 20% dei fabbisogni energetici complessivi in settori chiave dell’economia italiana. Altrettanto è atteso nel resto dei Paesi impegnati nella transizione verso una piena decarbonizzazione. A dirlo è uno dei primi studi di Hydrogen JRP, la Joint Research Platform voluta dal Politecnico di Milano e dalla sua Fondazione, in collaborazione con alcune grandi imprese, per elaborare scenari e strategie per la produzione e il consumo di energia a zero emissioni.
La Commissione Europea stima infatti che, per conseguire gli obiettivi del Green Deal, l’Unione dovrà incrementare di oltre 500 gigawatt (GW) la produzione di energia da fonti rinnovabili già entro il 2030, chiedendo agli Stati membri di realizzare il 40 per cento di questo obiettivo entro il 2025 nell’ambito dei PNRR. Cogliere l’occasione offerta dall’Europa, dunque, non è un tema avveniristico, piuttosto una necessità imminente: quella di adoperarci per costruire un nuovo paradigma sociale ed energetico e lanciare un grande volano industriale attraverso la realizzazione di significativi investimenti infrastrutturali e di innovazione.
Tra le priorità indicate nelle circa trecento pagine del Pnrr, il Governo italiano intende sviluppare, e lo dice chiaramente, una leadership tecnologica e industriale nelle principali filiere della transizione energetica (sistemi fotovoltaici, turbine, idrolizzatori, batterie) che creino occupazione e crescita grazie allo sviluppo delle aree più innovative, a partire dall’idrogeno.
L’idrogeno, se usato in maniera complementare con altre tecnologie, può infatti contribuire in modo significativo a innescare processi industriali più sostenibili e puliti e a ridurre le emissioni generate dal settore trasporti, oltre che della power generation e del riscaldamento domestico. Questo significherebbe per l’Italia oltre 70 milioni di tonnellate di CO₂ in meno, il 20% delle emissioni totali di oggi. Inoltre, grazie alla capacità inedita di fungere da elemento di congiunzione tra il settore del gas e quello elettrico, nonché di consentire l’accumulo e lo spostamento nel tempo e nelle diverse aree del Paese di grandi quantità di energia, l’idrogeno può garantire flessibilità al sistema energetico e un migliore sfruttamento delle fonti rinnovabili.
In particolare, il settore dei trasporti è tra i destinatari di importanti trasformazioni che riguardano il trasporto pesante e a lunga percorrenza (per esempio, veicoli commerciali e bus) e quello ferroviario non elettrificato, oltre all’aviazione e a parti dei trasporti leggeri. Il trasporto a lungo raggio è responsabile per circa il 5-10 per cento delle emissioni di CO₂ complessive. Grazie alle misure previste nel Pnrr, potremmo registrare una penetrazione significativa dell’idrogeno fino al 5-7 per cento del mercato entro il 2030. Sul fronte ferroviario, invece, l’attenzione è rivolta al trasporto passeggeri. Attualmente, circa un decimo delle nostre reti è servito dai treni diesel di età elevata e di prossima sostituzione, rendendo questo il momento giusto per passare all'idrogeno, in particolare là dove l'elettrificazione non è tecnicamente fattibile o non competitiva.
L’idrogeno svolge poi una funzione importante in settori “hard to abate”, caratterizzati da un'alta intensità energetica e privi di opzioni di completa elettrificazione realmente scalabili, come nell’industria chimica e della raffinazione del petrolio, o come nei settori dell’acciaio (l’Italia è uno dei più grandi produttori in Europa, seconda solo alla Germania), il cemento, il vetro e la carta.
È quindi evidente come la transizione verso l’idrogeno necessiti da un lato di nuove competenze, altamente specializzate, e dall’altro di nuove tecnologie. Formazione e ricerca sono due assi portanti del cambiamento in atto. Per questo è fondamentale trovare un punto di unione solido tra il mondo accademico e quello industriale attraverso piattaforme comuni e laboratori congiunti, dove sviluppare e testare tecnologie innovative. Dove predisporre strategie abilitanti per l’economia sostenibile. Dove elaborare best practice per la costruzione e il mantenimento delle infrastrutture ad idrogeno.
Al momento sono cinque le aziende principali protagoniste dell’iniziativa del Politecnico e della sua Fondazione. Fanno parte di Hydrogen JRP come fondatori: Edison, Eni, Snam, A2A e NextChem. Tuttavia l’intento è quello di creare una vera e propria filiera dell’idrogeno in Italia, allargando la partecipazione al maggior numero di soggetti interessati. Le prime iniziative riguardano la ricerca su tutta la catena del valore: dalla produzione, al trasporto e stoccaggio, fino agli usi finali. Due gli approcci: progetti orizzontali su tematiche trasversali; progetti verticali su tecnologie specifiche. A dare spazio a questa iniziativa è il distretto di innovazione che sta prendendo vita nel Campus di Bovisa intorno agli iconici gasometri ritratti nei quadri di Sironi. Ancora una volta Milano guarda avanti. Apre le sue porte e da qui muove i primi passi per favorire la competitività del sistema Paese.
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